Dì il mio nome. Anoressia, 7 anni dopo.

Spaghetto

Il folletto, lo chiamavo.

Tassativamente nero, ovvio; non è che per una cosa del genere potevo scegliere un colore vivido e brillante come, che so, un rosa pastello (a prescindere dal fatto che a me il rosa fa schifo). È che un uomo nero sembrava essere troppo ingombrante, oltre che poco adatto; un animale poteva farmi correre il rischio di dare troppa fisicità alla cosa, renderla quasi palpabile, quando l’unica cosa che volevo era negare l’innegabile. Il folletto nero sembrava essere il giusto compromesso tra intangibile e tragicità, nelle giuste proporzioni: in fondo quello che sentivo –e che solo io potevo sentire, era una voce al pari di un sibilo. Una voce capace di irretire ogni centimetro del mio corpo davanti a un piatto troppo pieno. Stavo giusto riflettendo sul fatto che, ancora oggi, non lo chiamo col suo vero nome: è ancora il folletto, se parlo con qualcuno che l’ha vissuto accanto a me; per tutti gli altri, è “il periodo in cui sono stata male” o, in una molto leggera (e poco esaustiva) litote, “quando non sono stata bene”.

Si  chiamava anoressia.

La prima volta che ho usato questa parola è stata in una lettera a Mina (si, proprio quella Mina), nel periodo in cui mi bastava essere abbonata a Vanity Fair per farmi sentire in pace con il mio lato femminile. Le scrissi che la cosa la avevo più che superata, perché ormai sorridevo almeno una volta ogni due giorni, avevo un fidanzatino e soprattutto, ero ingrassata di cinque chili. Cinque chili più vicina all’indice di massa corporea che mi avrebbe ricategorizzata come normopeso. Da quel momento avrò utilizzato quella parola circa sei o sette volte, quando ho pensato di avere di fronte una persona con cui avrei condiviso qualcosa in più di un semplice aperitivo  tra amiche o una voltata di letto.  Giusto qualche settimana fa, durante un esercizio in università, ho avuto il coraggio di chiamarla “una stupida dieta pre-prova costume da sedicenne”.

Mi ero ripromessa di non usare questo blog come diario personale: doveva essere più un esercizio stilistico, un raccoglitore di idee, un misero palchetto in legno tenuto in piedi da quattro chiodi in croce per le mie opinioni. Ma in fondo, il blog è (una) parte di me; è una sorta di terzo braccio, di estensione. E non è che io, col cibo, abbia avuto a che fare solo nel bene.

Ceci n’est pas un’opera di esibizionismo, né tanto meno un tentativo di aiuto alle persone che ci sono ancora dentro fino al collo. Forse a loro sto facendo solo del male, perché se dovessi immaginare di essere dall’altra parte dello schermo, 7 anni fa, avrei pensato “Stupida, tu ci sei uscita. Leggerò attentamente cosa hai fatto per non cascare nei tuoi stessi errori. Io ci posso convivere, non sono debole quanto te.” La mia testimonianza può essere solo utile a tutte quei disperati che sono accanto alle persone malate, perché ho realizzato che senza una grande squadra alle spalle non ne sarei mai uscita, e a quelle persone che malate non lo sono più, ma si ostinano a non pronunciare il suo vero nome.

Si chiama anoressia.

7 anni, sono passati. Io ne avevo 17, 17 e mezzo, ed era Natale. Ero riuscita a camuffare la prima settimana con un virus intestinale –che avevo avuto davvero, ma per non più di tre giorni. Bevevo soltanto the con molto limone e zero zucchero, e mi dicevo “hey, guarda un po’: bevo solo the e riesco comunque a stare in piedi tutto il giorno. Vediamo fin dove posso arrivare.” Maledizione, c’era Natale di mezzo: la solita orgia di cibo, di lasagne, di dolci. I miei amati dolci. Pazienza, quell’anno avrei fatto volentieri a meno di loro. Peccato che il mio gioco sia stato smascherato proprio durante il pranzo del 25: riso in bianco, mi avevano messo davanti. Un’enorme, mastodontica, decisamente troppo colma ciotola di riso in bianco. Ne mangiai a stento cinque cucchiai, non uno di più, non uno di meno. Il giusto che avrebbe illuso tutti del fatto che fossi ancora nel pieno del virus. L’unica illusa, lì in mezzo, ero io; e la mia arrogante, stupida furbizia fu smascherata immediatamente: lo capii fissando con odio lo sguardo allarmato di mia nonna. Da quel momento in poi, non c’è tanto da raccontare: fu solo un precipizio buio, un po’ come quei tubi chiusi dei parchi acquatici che non ti fanno capire a che punto della corsa sei. Ma non è che mi divertissi tanto. Era un continuo lasciare sempre qualcosa nel piatto, ballare durante le feste per non avvicinarsi al buffet, uscire di sera per non cenare a casa –non cenare affatto. Sentivo freddo, tanto freddo: a volte credevo che durante la notte avrei perso le dita dei piedi. Ma in compenso, arrotolavo appena l’elastico dei pantaloni del pigiama e passavo con orgoglio l’indice nell’incavo che si era formato tra le ali del bacino. A scuola arrivavo con un litro di acqua da bere per illudere lo stomaco e dissuaderlo dal gorgogliare per la fame, e a ogni cambio dell’ora correvo verso l’unico termosifone in aula per riscaldarmi le mani. Dopo qualche tempo, i miei compagni non osavano nemmeno alzarsi dalla sedia per andare incontro a quel termosifone; lo lasciavano a me e basta. Di contro, però, gli adolescenti possono essere molto, molto crudeli: quando non c’è una causa riconosciuta –e conclamata, la fantasia prende sempre il sopravvento, e tutti si improvvisano opinionisti, tutti si improvvisano esperti in materia. Anche quando si tratta della tua vita personale. Sono partite a raffica tra le più svariate speculazioni sulla mia malattia, e ho sentito storie che non sarei riuscita a realizzare nemmeno nei miei peggiori incubi.

I miei genitori non hanno mai saputo bene come comportarsi. Papà mi nascondeva del cioccolato nello zaino, che sistematicamente veniva divorato da almeno una decina di persone –tra cui, ovviamente, non figuravo io. Mia madre non sempre mi assecondava: a volte cucinava tante verdure, come piaceva a me; altre volte mi fissava, senza dire niente; altre ancora, piangeva a tavola. La dispensa era sempre piena: io forzavo quel povero bambino che era mio fratello a mangiarlo, o cucinavo a più non posso in modo che nessuno si sarebbe permesso di rifiutare ciò che io avevo preparato. In entrambi i casi, la dispensa sarebbe stata svuotata. Il secondo dei quattro specialisti che mi hanno seguita decise per me che sarei andata a mangiare a casa di mia nonna, da un certo momento in poi. Lei e mia zia avrebbero dovuto cucinare e lasciarmi mangiare finché volevo, e annotare ogni cosa, dal peso del mio piatto ai miei stati d’animo. In fondo, avevano notato tutti che bastava offrirmi una briciola di troppo per paralizzarmi del tutto. Ma non era colpa mia: era il folletto, che me lo diceva. Zia mi preparava enormi ciotole di quella che ancora oggi è la mia macedonia: pezzettoni di banana, fragola e kiwi –inondati di zucchero, ma io allora non lo sapevo né stranamente me ne accorgevo.

Dopo l’immediata perdita a precipizio di 25 chili, è stata una continua montagna russa, un saliscendi di uno, due, tre chili. Il mio ciclo mestruale era bello che andato, la mia quarta di reggiseno era solo un ricordo e l’armadio aveva vissuto un cambiamento più drastico di quanto fosse stato quello del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Tornata dalla gita di quarto superiore a Berlino, grazie anche all’assunzione di integratori corposi e pesanti al gusto cioccolato, banana, vaniglia o fragola, avevo messo su 5 chili. Mia zia, per festeggiare, strisciò per me la sua carta di credito durante un intero pomeriggio; sotto gli occhi estasiati delle commesse che mi incoraggiavano a presentarmi a provini per modelle, io volevo solo morire. Quei 5 chili li vedevo tutti sui fianchi, sulle braccia, sul collo. Nel giro di una settimana li ho persi tutti, e con gli interessi. Ecco che si ricominciava, dunque: più mi si tendevano forchette, cucchiai, piatti colmi, più io mi chiudevo a riccio. O meglio, più la voce del folletto si faceva grossa.

Durante quel periodo si sono susseguiti due ragazzi. Il primo, tuttora mio grande amico, a cui posso attribuire (col senno di poi) un grande merito: non mi ha mai forzata a mangiare; mi spiego, ordinava sempre tutto quello che desideravo, e anche se il mio contributo si fermava a due forchettate, non diceva niente e finiva tutto lui. Mi dispiace per il suo peso forma di allora, ne sono stata responsabile in parte. Il secondo, incontrato in una fase di ripresa, inneggiava e incoraggiava quello che lui definiva peso forma, che altro non era che eccessiva magrezza. E, a 19 anni, è facilissimo fare di tutto, davvero di tutto, per accontentare la persona che si crede di amare. Ho pensato che l’unico modo per fargli capire quanto sbagliasse era augurargli una figlia con la stessa malattia, ma è una cosa che non avrei mai augurato –e mai augurerei- nemmeno al mio peggior nemico.

Il mio crollo peggiore è arrivato poco prima dei miei 18 anni. Una mattina ho provato ad alzare la testa dal cuscino e non ci sono riuscita. Sentivo di avere pochissime forze, ma non avevo per niente voglia di raccoglierle. Così ho deciso di smettere di lottare, di chiudere gli occhi e di non proferire parola. Era tutto così calmo, così buio: per quanto avvertissi il trambusto, la disperazione che avevo creato attorno a me, mi sembrava tutto così lontano e ovattato: esistevo soltanto io e il mio silenzio, il mio vuoto. Sono stata così per tre giorni, finché papà mi si è avvicinato all’orecchio e, dolcemente, mi ha chiesto di aprire la bocca per prendere una piccola pillolina verde. Delle vitamine, diceva. Io non gli ho minimamente creduto, ma senza controllare le mie azioni, ho aperto serenamente la bocca e ho lasciato che la prima dose di psicofarmaci entrasse nel mio corpo. Ancora oggi non so come sia stato possibile, chi o cosa me l’abbia permesso. Il primo effetto è stato un pianto incontrollabile: ho urlato e scalciato per minuti che sembravano infiniti, tra la paura e il primo sollievo dei miei genitori. Dopo quel momento, c’è stato un incessante viavai dalla porta di casa: gente che veniva a farmi visita solo per curiosare, per uscire e dire “io l’ho vista”; gente che stava in silenzio, mi teneva la mano e provava a non piangere; gente che mi rivolgeva parole dure, quasi di rimprovero, per incoraggiarmi a modo loro; gente che c’era, che faceva i salti mortali prima di andare a lavoro e che mi rivolgeva i sorrisi più belli e sinceri; e gente che, lo ammetto, avrei voluto vedere, ma che non ha mai trovato il coraggio di venire a trovarmi. Per molto tempo, in particolare, ho odiato una persona che, durante tutto il periodo della malattia, non mi è mai stata accanto: più i sintomi si facevano evidenti, meno lui era presente. Ora non posso che biasimare me stessa, perché mai avrei potuto pretendere da lui di starmi accanto; in fondo, eravamo solo dei ragazzini. Mi sono rialzata lentamente, e per quanto allora pensassi di essere radiosa, alla festa del mio diciottesimo compleanno, nelle foto di quella sera vedo solo un sorriso stanco e tirato, il mio così come quello di mia madre, che non ne poteva più di vedermi così esile.

La mia ripresa è stata lunga, faticosa e accidentata: nel mentre sono cresciuta, mi sono trasferita a Milano, ho iniziato l’università, sono partita per il Sud Africa. Anche se ormai rientravo nella categoria dei normopeso, il folletto si faceva ancora sentire, e a terribili e incontrollabili abbuffate si susseguivano digiuni davvero difficili da nascondere. Finché un giorno non mi sono trovata accanto a mia nonna, che cuoceva il pane nel forno a legna: il profumo era talmente forte che, anche se avessi voluto scappare, non sarei riuscita a muovere un passo da lì. Ne ero completamente inebriata, stordita, ipnotizzata. Me ne offrirono un pezzo molto piccolo, e non appena la mollica calda si sciolse tra lingua e palato, mi sentii invadere da un calore profondo, antico, che non percepivo da tanto, troppo tempo. Mi intrufolai nel forno, di nascosto dagli occhi di tutti, per rubarne un altro pezzo. E un altro ancora. Quel sapore mi faceva sentire viva. Scoprivo di avere ancora un’anima, ed ero felice di sentirla ancora lì, tra le costole.

E questa è la mia storia. Adesso ho 23 anni, 23 e mezzo, e ho passato l’ultimo Natale mangiando panettone. Non so quanto peso, non ho un rapporto morboso con la bilancia, ma mi piace mangiare, assaggiare cose, tanto quanto mi piace andare a correre. Sono in eterna lotta con i chili di troppo, soprattutto dopo le feste, ma so quando smettere –e non mi lamento affatto della mia taglia 44. Ho affinato parecchio i miei gusti, ho incluso moltissima frutta e verdura nella mia dieta, e al dolce non dico mai di no. Nella mia anima il folletto non c’è più, ma riesco ancora a sentirlo attraverso gli occhi di chi ha preso sotto il suo giogo: riesco a percepirlo ogniqualvolta gli si offre qualcosa di troppo; le pupille si dilatano, i muscoli si irrigidiscono, e le labbra non sanno da dove iniziare per formulare in tempo una scusa plausibile per rifiutare.

Ne ho incontrate molte, persone malate. Ma non le ho mai forzate a mangiare, né tanto meno le ho costrette a parlare della loro condizione, o riconoscere e lottare la loro malattia. Le ho sempre invitate a merenda o colazione, piuttosto che a pranzo a cena, e sempre davanti a un caffè o un centrifugato, mai per una fetta di torta ipercalorica. Le ho incoraggiate a parlarmi di cibo, di profumi, di sapori, ma mai a mangiare. Cerco di far venire loro l’acquolina in bocca, non a imporre la fame che credono di non avere. E da questo, loro hanno capito. Hanno capito che un giorno ci sono stata io al loro posto. Direi con un certo sollievo che molti di loro mi hanno anche lasciata fare: il cibo è un’esperienza che può essere vissuta anche senza mangiare, e invogliare a vivere tutte le altre diverse sfaccettature non è che il primo passo per tornare a desiderarlo. Per quanto possano essere tese le mani verso di te, sei tu che devi afferrarne almeno una. Ecco perché riprendere qualcuno per i capelli, di forza, non può che esser peggio. Il primo impegno deve essere spontaneo –e voluto. Una grande squadra alle spalle è più che necessaria, ma senza la forza di volontà individuale non si va da nessuna parte.

Oggi ho fatto del mio demone la mia più grande forza: ho scritto la mia tesi di laurea su uno chef, una delle persone più illuminate e folli che abbia mai conosciuto; frequento un master che mi permette di vivere il cibo ogni giorno, ogni istante; dono il mio amore in forme di pane da 1 chilo, che sforno almeno una volta alla settimana. Il cibo lo studio, lo assaggio, lo scrivo, lo amo.

E si, posso raccontare che una volta sono stata anoressica. Ma sono contenta di potervelo raccontare, perché evidentemente, il peggio è passato.

5 pensieri su “Dì il mio nome. Anoressia, 7 anni dopo.

  1. Ho passato 6 anni accanto a una persona malata, non sapendo che fare… a volte urlavo, a volte piangevo, a volte, semplicemente, mi riempivo il bicchiere e cercavo di dimenticare che mia sorella era diventata più simile a uno spaventapasseri che a una persona.
    Ho pianto anche adesso, perchè per un attimo ho rivisto il suo sguardo atterrito…
    Ti abbraccio forte.

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  2. Sono arrivata a 58 kg in quarta liceo. Va beh, sono bassina, ma non c’è nulla di male. Ma ballavo, e allora si che è male, specie se ti pesano una volta ogni 3 settimane e ti appuntano il peso con una faccina su un quadernino. Poi aggiungici depressione dalle medie, separazione dei genitori, solitudine completa. Nel giro di 2 anni ho perso 20 kg, una cosa lenta, da sembrare un normale dimagrimento. Ma poi ti trasferisci a km di distanza per studiare danza e lì il tracollo. Prima di lezione una piccola mela e poca ricotta super light e via. 3 lezioni al giorno e stavo ancora in piedi. Adesso morirei 😛
    E proprio nell’abisso mi sono innamorata del cibo, sono tornata, ho aperto un blog che ha seguito il mio lento recupero. Ora sto bene, il ragazzo con cui sto da quasi 2 anni ha fatto anche si che non mi senta più in colpa per le cene al ristorante, penso a mangiare sano, ma comunque la paura di ingrassare c’è, e non so perché, visto che quando mi vedo nelle foto mi vedo troppo magra. Ma sono sulla buona strada per togliermi anche quest’ansia. Scusa la forse inutile condivisione della mia esperienza, ma mi è uscita così 🙂
    Sono felice che sia passata, perché so cosa significhi ❤

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  3. Ci vogliono grande coraggio e grande consapevolezza per scrivere un post come questo. Sono contenta che adesso tu stia bene e che abbia trovato il modo giusto per dialogare con e attraverso il cibo 🙂

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Scrivi una risposta a valentina | sweet kabocha Cancella risposta